Persistono gli atti di autolesionismo della categoria. Anche solo parlare di sciopero mi sembra perfetta sintesi del declino irreversibile
Forse dovrei essere diplomatico, ma proprio non ci riesco. Sono allergico agli scioperi. Non li facevo quando ero al liceo, figuriamoci ora. Allora soprattutto perché mi sembrava un atto di vigliaccheria: coprire il desiderio di fare fughino dietro presunte istanze politiche e non avere il coraggio individuale di starsene a casa, sopportandone le responsabilità, sperando da pecora di nascondersi nel gruppo, evitando i fastidi della scelta.
Oggi istintivamente lo sciopero degli avvocati mi appare immorale, prima ancora che ottocentesco, controproducente per la reputazione della categoria e inutile (non mi soffermo su questioni utilitaristiche, detestando Marx): mi sembra aberrante pensare di rendermi corresponsabile dei ritardi endemici della nostra giustizia, ritardandone anche solo per un minuto l’applicazione nel caso singolo, a spese del cliente. Si dirà: cosa vuoi che siano due-tre settimane in più, a causa del rinvio d’udienza, rispetto ai quattro-sei anni di durata del processo civile. L’affermazione non merita risposta.
Ritengo poi immorale che io e il mio cliente dobbiamo sottostare alla decisione del collega (e della controparte): nella logica del contemperamento degli interessi deve semmai prevalere non la rivendicazione politica – ammesso che ci sia e meriti attenzione – ma la prosecuzione del processo, civile o penale che sia, fino al suo esito.
Mi fa piacere se mi scrivi. In privato, sarà fuori moda ma a me piace così